La verità è che odiamo il Natale, non quello dei regalini, delle attenzioni di facciata, del rito consumistico che ha generato i likes e i followers, no.
Odiamo e ripudiamo il Natale della prospettiva cristiana, lo abbiamo sempre odiato ma ben mascherato con quel tradizionalismo ostentato, le belle parole, le opere buone e sante, e la puzza di frittura di calamari sulle pellicce extralusso della Veglia, seduti ozianti tra le panche della chiesa di quartiere.
Lo abbiamo sempre odiato e oggi lo ripudiamo perché è la festa del “decentramento”, del “tu non sei il centro del mondo”, dell’ “esisti per l’altro”.
E l’altro, il vero competitor, è un bambino. In un mondo che ci insegna a scovare nell’altro un nemico da eliminare ed annichilire, il Natale cristiano invita a decentrarci, a cercare la misura della grandezza nella insignificanza economica di un neonato, un infante, non eliminandolo ma sobbarcandosi l’onere della cura.
Solo se accettiamo di pazientare alla mangiatoia, scopriamo di essere programmati per sfidare i “grandi” ma non avere gli strumenti idonei per rispondere alle sfide disarmanti dei piccoli.
Il Natale è dunque festa della nostra resa in ginocchio, davanti ai testimoni del presepe.
A loro chiediamo, come ai giudici di un talent televisivo nazional-popolare di insegnare a noi ad acquisire le competenze per aspirare alla vera sfida finale della quotidianità.
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Attualmente insegna IRC nelle scuole secondarie a Roma, collabora con l'equipe pastorale di Porto Santa Rufina per la formazione e la catechesi. Già baccelliere in teologia presso la PFTIM San Tommaso, ha approfondito gli studi di licenza in cristologia dogmatica. Dottore in Lettere e filologia moderna, è coautore di un saggio sul pensiero teologico e politico su Lutero, Calvino e Zwingl