Il fenomeno delle serie TV in streaming ha superato la sua fase sperimentale dimostrando di essere la prima linea della sperimentazione cinematografica degli ultimi anni.
La TV generalista ormai si affida all’usato sicuro, pacchetti di programmi con lo stesso titolo, riciclati da successi di altre nazioni. I più anziani ricorderanno le grandi serate del varietà, tutti seduti in trepidante attesa, la sigla, la gag, i nomi illustri. Altra TV. Altri tempi. Oggi, con l’imperversare di Tik tok (e simili), è molto difficile accontentare gli spettatori impedendo loro di fare zapping per il resto della serata.
Ecco perché pare strano che una serie TV come “The Chosen” stia riscontrando un successo crescente.
Di cosa parla?
Semplicemente della vita ministeriale di Gesù attraverso la prospettiva dei suoi stretti collaboratori. Una storia di cui si conosce tutto del protagonista (mai più calzante è l’espressione “vita, morte e miracoli”), la sua vicenda, riproponendo nella serialità una quotidianità che a tratti fa storcere il naso.
I discepoli seguono il prescelto, come amici incontratisi sulla strada maestra per Woodstock, capelli cotonati, ma abiti quasi disegnati come nel Live action dei Flintstones. Le musiche etniche di sottofondo accompagnano, puntata dopo puntata, alla certezza che quel prescelto tanto atteso sia proprio il nazareno.
Dimenticate l’etereo e fatalista Gesù zeffirelliano, sguardo ieratico e profondo, passerella drammatica di un condannato a morte asintomatico. Dimenticate Pasolini e Gibson. Qui il regista sembra voler tornare alla scuola americana, quella semplicemente di propaganda del Gesù degli anni 2000, nella non banale pretesa di gettare il vecchio copione nel nuovo millennio.
Ricordate il giovanotto sorridente e rassicurante che parla con il diavolo in giacca e cravatta? Se lo ricordate, mi spiace. Ma almeno avrete capito il motivo dell’alternanza di musiche da presepe a stacchi punk rock, i dialoghi di circostanza livellati sul “Ma sarà vero?” e “Fidati” sia che Gesù guarisca un lebbroso sia che renda mondo un indemoniato. Lui passa, impone le mani, spezza il pane e le parole, con sapienza e serafica mestizia.
Intorno c’è polvere, deserto, gente che ha fame, ma ha avuto il tempo di curare barba e parrucco, digrigna i denti ma trasforma il lamento in pianto liberatorio, riproponendo il Salvatore come un Doctor House in Galilea.
Gesù non è neppure lo stesso giovanotto del 2000: stavolta assomiglia a quello della sindone o forse all’identikit degli esami genetici tanto cari agli Americani. E forse l’immagine è l’unica somiglianza con quel realismo millantato nella trama. Un dato potrebbe fare discutere: il Gesù della fiction potrebbe emotivamente allontanare dal Gesù della fede (si riproporrebbe il fenomeno antico e già noto del rapporto tra testi canonici e testi apocrifi)?
E un dato almeno fa riflettere: la serie attira ancora (sperando non sia solo marketing) e il pubblico mondiale pare apprezzare la proposta.
Attualmente insegna IRC nelle scuole secondarie a Roma, collabora con l'equipe pastorale di Porto Santa Rufina per la formazione e la catechesi. Già baccelliere in teologia presso la PFTIM San Tommaso, ha approfondito gli studi di licenza in cristologia dogmatica. Dottore in Lettere e filologia moderna, è coautore di un saggio sul pensiero teologico e politico su Lutero, Calvino e Zwingl