Riprende l’appuntamento di critica “leggera” alla serie TV su Gesù, sbarcata ultimamente anche su tv2000. La seconda stagione inizia con un lungo episodio nel quale si intrecciano le testimonianze dei superstiti alla Passione e la narrazione dei fatti che costruirono il gruppo dei seguaci vicini al Messia.
Sin dal principio però i conti non tornano: la trama pare prendere il sopravvento rispetto alla vera storia, scegliendo di cavalcare l’onda emotiva dei telespettatori più che condurre i curiosi ad entrare nell’ottica del Regno di Dio, annunciato da Gesù.
Sono tre le scene che vorrei sottolineare:
1. Nel gruppo dei discepoli sinteticamente si mette in evidenza la crescita graduale delle invidie, della disputa a chi dovrà essere il capo. E sinceramente penso sia una libertà autoriale che può pure starci.
2. “Giovanni, colui che egli amava”. Mi piace un po’ meno come l’espressione si costituisce nel dialogo tra il Giovanni scrittore e Maria. Piace meno perché appare una mezza incoronazione posticcia autoreferenziale e una mezza concessione di Maria , seguendo il mantra “Gesù mi amava”, “Lo sai che Gesù ti amava”. Invece è assai romantico pensare che i testimoni della seconda e terza generazione avessero voluto onorare la longevità del vegliardo di Patmos comparandola all’amore del maestro. Giovanni, secondo loro, non avrebbe conosciuto la morte perché prediletto di Gesù. Direte voi che le esigenze di copione non potrebbero cogliere queste sfumature.
3. Ecco, la vera cantonata è nella scelta di trasformare la parabola della pecorella smarrita in un comizio ove la narrazione è messa sulla bocca di un pastore che dialoga con Gesù. Una specie di dialogo filosofico socratico e platonico. E no. Qui sono quasi saltato dalla sedia. La parabola è un genere letterario proprio di Gesù. Unico nel suo genere perché è unico il pacchetto dei contenuti offerto. Nelle parabole ci sono due realtà che entrano in conflitto sovrapponendosi, ma che in qualche modo sovrapponendosi devono pur entrare in contatto. Ecco, le parabole scaraventano le verità dell’uomo giù nel baratro del misterioso mondo del Regno di Dio. Mette di fronte l’irrealizzabile al realizzato, l’Infinito al finito. E lo fa con la semplicità disarmante della parola della quotidianità.
La parabola della pecorella smarrita è incomprensibile, ed è inaccettabile secondo la mente del pastore umano, della sua economia di salvezza e sopravvivenza. Nella parabola aleggia il concetto di giustizia e amministrazione. Ora, quale stolto lascerebbe andare 99 pecore alla deriva nel deserto (badate bene, la storiella è chiara: il pastore non ha il tempo di portare le pecore all’ovile e metterle in salvo se vuole provare a salvare l’unica perduta) per cercare l’unica smarrita? La risposta è: nessuno! Solo un pazzo.
Si, il Dio Padre descritto da Gesù è folle, se lo si vuole studiare da una prospettiva umana. La parabola può essere compresa solo col filtro del “paradosso”. La chiave di lettura costringe la ragione dell’ascoltatore ad arrendersi al mistero che incombe e, nella follia dell’insensato, il mosaico prende forma.
Il pastore non sei tu, ma Dio. Il folle che agisce non sei tu, ma Dio che pratica una nuova forma di giustizia che nessuno uomo saprebbe amministrare. E a chi lo dice? A pastori. A quei pastori Gesù spiega come non essere pastori, come concepire la giustizia di Dio e come l’amministrazione del Regno di Dio possa generare tutte le cose in modo nuovo. Rimandando le riflessioni esegetiche ad un prossimo approfondimento, ritengo che questo terzo punto sia la sbavatura più grossolana emersa fino a questo momento. Un errore che riduce la portata delle parole di Gesù in un film che in più punti dimostra di voler non solo intrattenere ma anche spiegare qualcosa in più su quel Messia che ha cambiato la storia dell’umanità.
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Attualmente insegna IRC nelle scuole secondarie a Roma, collabora con l'equipe pastorale di Porto Santa Rufina per la formazione e la catechesi. Già baccelliere in teologia presso la PFTIM San Tommaso, ha approfondito gli studi di licenza in cristologia dogmatica. Dottore in Lettere e filologia moderna, è coautore di un saggio sul pensiero teologico e politico su Lutero, Calvino e Zwingl