Probabilmente c’era bisogno di un ulteriore intervento della Chiesa sui “temi scottanti” che riguardano la dignità della persona umana non solo per incrementare ildialogo con il mondo contemporaneo ma presumibilmente anche per rafforzare l’attenzione dei cattolici sulle attuali gravi violazioni della dignità umana del nostro tempo.

Spesso infatti l’inalienabile dignità che spetta ad ogni essere umano non è totalmente riconosciuta nemmeno da alcuni cattolici. Rispetto al tema dell’aborto, quello dell’eutanasia e del suicidio assistito, in ambiente cattolico, è quello più discusso e che viene accettato con più facilità.

In nome della libertà della persona si afferma che è un diritto il non voler vivere una vita indegna a causa della presenza di una malattia grave specialmente se terminale. Quando si affrontano certi temi, purtroppo, «La libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità»(1).

La Dichiarazione Dignitas Infinita, con la sua gestazione protrattasi per cinque anni, pur non avendo la pretesa di esaurire gli spinosi temi, come essa stessa afferma, fornisce sicuramente una panoramica sintetica e chiara anche per coloro che non conoscono in maniera approfondita l’antropologia cristiana e il concetto di dignità ontologica.

Come scrisse Robert Spaemann, uno dei più acuti filosofi del nostro tempo:

«La dignità è il fondamento dell’uomo, spiega l’esistenza di diritti e doveri, della libertà e della responsabilità. La dignità ha in sé qualcosa di trascendente, di sacro, di religioso, perché solo “rappresentando” l’Assoluto l’essere umano possiede ciò che chiamiamo “dignità”»(2).


Secondo la Dichiarazione Dignitas infinita, proprio l’eutanasia e il suicidio assistito, designate “leggi di morte degna” (cfr. n.51) sono le più silenziose e diffuse per quanto riguarda i temi bioetici.
La terribile sofferenza fisica e psichica dei malati terminali non cancella la loro dignità che resta intrinseca e inalienabile ma ci obbliga a prenderci cura del dolore dell’altro, di un dolore che richiama inevitabilmente il grande ultimo tabù occidentale, la morte.

Accompagnare qualcuno che sta per morire è una prova che necessariamente comporta un lavoro su se stessi e un’attenta riflessione sul senso della vita.
Lo stare “con” il malato e accompagnarlo al suo destino spesso inesorabile non è solo compito delle famiglie ma riguarda tutti noi, non solo gli operatori sanitari ma anche le comunità cristiane. Spesso purtroppo le famiglie vengono lasciate a loro stesse, senza aver la possibilità di manifestare la loro rabbia, l’amarezza, la delusione e il dolore.

Come già osservava papa Francesco nella lettera Samaritanus bonus (2020) dell’allora Congregazione per la dottrina della fede, quando si parla di cure palliative non bisogna far riferimento solo alle cure che garantiscono al paziente un’assistenza medica, ma anche un accompagnamento umano e vicino.
Le famiglie non possono essere lasciate da sole in queste situazioni estremamente difficili ma devono essere coadiuvate attraverso un supporto sociale, psicologico e spirituale.

Tutto ciò probabilmente è troppo dispendioso economicamente e psicologicamente per una società come la nostra dove non si ha il coraggio di accogliere la morte trovando più facile somministrarla (cfr n.52). Aver a cuore il malato, non consiste nel provocare la morte o aiutarlo a morire, a mettere fine alle sue sofferenze, ma significa, nel rispetto della sua dignità, ascoltarlo, accoglierlo, sostenerlo, offrirgli affetto, attenzioni e mezzi per alleviare la sua sofferenza non solo fisica ma psichica attraverso un team che sappia accompagnarlo negli ultimi momenti della sua vita non solo dal punto di vista sanitario ma anche psicologico e spirituale.

Il vero obiettivo delle cure palliative non è quello di prolungare la vita ma di migliorarne la qualità, alleviando le sofferenze anche con l’utilizzo di farmaci specifici (come ad esempio la morfina) senza però tralasciare l’aspetto psicologico e spirituale, sostenendo inoltre le famiglie favorendo un percorso di riconciliazione e pacificazione rispetto alla vita del malato e delle persone che gli stanno attorno.

Durante la mia esperienza di docente di Questioni di bioetica di fine vita e Consulenza familiare presso il “centro la Famiglia” Onlus di Napoli ho avuto modo di aver un riscontro pratico circa la necessità e l’importanza di un accompagnamento globale delle persone malate terminali attraverso il dialogo con infermieri e medici impegnati sul campo nell’ accoglienza del malato non solo dal punto di vista sanitario.

«Per il credente, guardare al Crocefisso significa confidare nella comprensione e nell’Amore di Dio: ed è importante, in un’epoca storica in cui si esalta l’autonomia e si celebrano i fasti dell’individuo, ricordare che se è vero che ognuno vive la propria sofferenza, il proprio dolore e la propria morte, questi vissuti sono sempre carichi dello sguardo e della presenza di altri. […]Lo “stare” è uno dei segni dell’amore, e della speranza che porta in sé. L’annuncio della vita dopo la morte non è un’illusione o una consolazione, ma una certezza che sta al centro dell’amore, che non si consuma con la morte»(3).


Note
  • 1 S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), n. 19: AAS 87 (1995), 422.
  • 2 Cfr. Spaemann R., Tre lezioni sulla dignità umana, Edizioni Lindau, Milano 2018.
  • 3 Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera Samaritanus bonus (14 luglio 2020), II, AAS 112
    (2020).

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Danila Pompilio
danilapompilio@yahoo.it | + posts

Teologa e consulente familiare, da anni docente di religione e della scuola di comunicazione e di Consulenza Familiare di Napoli. È direttore del Consultorio familiare Agape ODV e appassionata di teologia della famiglia e psicologia.

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