Il festival alla Cavour


Se un alieno dovesse decidere un giorno di fare visita al nostro Paese, dovremmo mostrargli il Festival di Sanremo: un lungo itinerario di presentazione dei cantanti, le interviste alla ricerca spasmodica di un senso profondo nei contenuti proposti.

La violenza di genere, il bullismo, il razzismo, la necessità di accorgersi del prossimo, la condanna alla guerra e alle relazioni dannose, il ripudio del linguaggio di odio.

All’inizio della gara canora, tra una gag e l’altra, appaiono i primi pronostici. Geolier è tra i favoriti. Ma chi è costui? Un napoletano che ha scelto di cantare un pezzo in napoletano.

Il linguaggio di giornalisti e cantanti si adegua: tutti inseriscono nelle loro interviste un riferimento a Napoli. “Terra amata”, “Sono napoletano anche io”, “Napoli mi ha insegnato tanto”, “Ho sangue napoletano”. Sembra di essere stati catapultati in una di quelle tornate elettorali di bassa lega.

Intanto lo sconosciuto Geolier è innalzato agli onori degli altari del pubblico. E qualcosa cambia. Si insinua, tra platea-folla e giuria dei sommi sacerdoti della stampa, una terrificante consapevolezza: davvero quel ragazzo venuto da un paese “di straccioni” può vincere Sanremo?

La vittoria del giovane nella serata delle cover è emblematica: la sala stampa sussulta, la folla in sala abbandona il teatro, i fischi inondano il cantante. “Non senti di aver rubato?”, “Smettete di fare votare in Campania”,”I napolecani non possono vincere”…sono alcuni dei commenti filtrati in rete.

La seconda lapidazione mediatica avviene alla serata finale con i fischi della platea, la stessa che a denti stretti lo applaudirà tre ore dopo poiché il ventenne sceglierà di cantare scendendo dal palco in segno di sfida.

E così Napoli torna ad essere elemento discriminante, la napoletanità un’onta da lavare in ogni modo. Alla fine vince un’altra promettente cantante, Angelina Mango.

Geolier ringranzia e in silenzio saluta. All’alieno telespettatore si potrebbe spiegare come si risolvono i problemi in Italia. Tanti buoni propositi teorici e un’accozzaglia di cattive prassi. E, da statuto, siamo ancora a ripetere a noi stessi che “fatta l’Italia dobbiamo fare ancora gli italiani”.

Salvatore Paduano
salvatorepaduano82@gmail.com | + posts

Attualmente insegna IRC nelle scuole secondarie a Roma, collabora con l'equipe pastorale di Porto Santa Rufina per la formazione e la catechesi. Già baccelliere in teologia presso la PFTIM San Tommaso, ha approfondito gli studi di licenza in cristologia dogmatica. Dottore in Lettere e filologia moderna, è coautore di un saggio sul pensiero teologico e politico su Lutero, Calvino e Zwingl

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