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Nel suo nuovissimo saggio Byung-Chul Han, in undici capitoli tanto agili quanto profondi, si interroga sul rapporto che l’uomo contemporaneo istituisce con il dolore.
La proposta del filosofo tedesco-coreano procede da una constatazione: viviamo in una società algofobica – terrorizzata dal dolore – che trasforma la sofferenza in una patologia. L’algofobia trova il suo correlato nel regime palliativo generalizzato: ogni segnale di debolezza deve essere nascosto in nome dell’efficienza, della prestazione. Detto altrimenti il dolore diviene una malattia, da affrontare ricorrendo ad analgesici di ogni sorta. Ma, aggiunge Han, sono proprio gli accaniti tentativi anestetici dell’uomo contemporaneo a ferire la sua capacità di cercare la verità, menomandolo così nella possibilità di interpretare il dolore.
La società contemporanea promette dunque una liberazione che non realizza, ed è anzi foriera della terribile schiavitù del non senso. Perché in definitiva, secondo Han, «è proprio la persistente insensatezza della vita a far male». Non a caso Alessandro D’Avenia scrive a tal proposito:
«Il dolore, suggerisce Han, è l’ostetrica del nuovo, fa ri-nascere, cioè fa nascere fino in fondo la nostra unicità: è levatrice di originalità»
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