Dio si è fatto come noi per farci come Lui

In questi giorni mi è venuto in mente un famoso canto di Marcello Giombini, “Dio si è fatto come noi” sicuramente conosciuto e cantato da molti di noi nel periodo natalizio e che mi riporta irrimediabilmente alla mia infanzia

Il canto composto addirittura nel 1967 in maniera chiara e più esplicita, riprende lontanamente le parole dell’orazione della Messa del giorno di Natale e il concetto che esprime la Prefazio di Natale III, Cristo ha assunto la nostra debolezza e ci ha concesso di partecipare alla sua vita divina.


Il mistero del Natale sicuramente ci sprona a riflettere sul tema della vocazione dell’uomo tesa all’unione con Dio, ciò che i padri greci chiamavano theosis o theopoiesis, tema centrale della tradizione teologica dell’Oriente cristiano, spesso messo in ombra nella teologia cattolica.


Secondo l’audace espressione Massimo il Confessore, Dio Padre ha destinato l’uomo a divenire “per grazia”, cioè mediante Cristo e nello Spirito, tutto ciò che Dio è per natura (Cfr. Ambiguorum Liber 7).

Quindi l’uomo non è chiamato ad una mera partecipazione ma a molto di più, a raggiungere la divinizzazione. Infatti Ireneo di Lione in Adversus Haereses afferma che:

“Gesù Cristo divenne ciò che noi siamo per portarci ad essere ciò che Lui è”.

L’uomo quindi ha un’infinita dignità proprio come in maniera errata cerca di affermare l’uomo moderno. De Lucac, ne il Dramma dell’umanesimo ateo, infatti afferma che l’uomo sempre più spesso sembra sentire questa sete di auto-affermazione ed auto-promozione come incompatibile con l’adorazione di Dio, come se tra Dio e l’uomo vi fosse rivalità e competizione.


Proprio in questo periodo natalizio parlare di un Dio che si fa uomo per rendere l’uomo Dio, di un Dio che si abbassa al livello dell’uomo, nella fragilità e nel bisogno di dipendenza di un bambino per innalzare l’uomo al suo livello, significa parlare di un Dio che mostra il suo vero Volto, quello dell’amore.

Nella liturgia bizantina, ricca di simboli e profondi significati, per descrivere il “volto” di Cristo, viene utilizzato l’aggettivo philantropos che letteralmente significa “amico dell’uomo”.


Aristotele non a caso definì l’amico come allos autos, un “altro me stesso” – l’amico è colui che vuole avere in comune con me “tutto” fino a diventare un altro me.


Il paradosso della vocazione dell’uomo sta tutto qui, l’uomo, essere piccolo, fragile, finito è addirittura chiamato a contenere in se l’Infinito e l’Eterno.


La divinizzazione dell’uomo non deve però essere confusa con una sorta di neognosticismo, non è un disprezzare la materia, la corporeità e nemmeno deve essere fraintesa come l’anelito dell’uomo a diventare come Dio ricordando il peccato originale commesso dai progenitori.

Come scrisse Massimo il Confessore, il peccato di Adamo non consistette nel desiderare di diventare come Dio,
poiché questo desiderio era stato infuso in lui da Dio stesso. Ma nel modo con cui egli ha creduto di
ottenere tale scopo – cioè “senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio” (cfr. Ambiguorum Liber).

Forse dimentichiamo che:

“la partecipazione alla vita trinitaria si realizza attraverso la
liturgia e in modo particolare l’Eucaristia[…].Nella divinizzazione[…] per la potenza dello Spirito
che dimora nell’uomo la deificazione comincia già sulla terra, la creatura è trasfigurata e il Regno di
Dio è inaugurato” (Cfr. Orientale Lumen 6).

Danila Pompilio
danilapompilio@yahoo.it | + posts

Teologa e consulente familiare, da anni docente di religione e della scuola di comunicazione e di Consulenza Familiare di Napoli. È direttore del Consultorio familiare Agape ODV e appassionata di teologia della famiglia e psicologia.

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